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Il salto nel buio

Si scrive accordo sulla produttività, ma si legge salto nel buio. In cambio di qualche agevolazione fiscale, si concedono alle aziende strumenti che fanno compiere alla lotta politica e sindacale passi indietro di qualche decennio, e tutto in nome di un malinteso senso della modernità.

L’accordo sulla produttività firmato il 21 novembre 2012 da quasi tutte le associazioni datoriali e i sindacati UGL e CISL (la UIL ha preso tempo fino alla fine della settimana), ma rigettato dalla CGIL, è un po’ come quei giochini in cui si propone una notizia buona ed una cattiva e si chiede al proprio interlocutore di scegliere quale ascoltare per prima. Solitamente la scelta cade su quella più brutta, nella speranza che quella buona abbia un potere consolatorio superiore a quello deprimente della prima. Nei rapporti con le associazioni padronali, ovvero con chi, di solito, ha il coltello dalla parte del manico, avviene il contrario, cosicché la notizia buona ha semplicemente lo scopo di indorare una pillola ben più amara. E infatti nell’accordo gli imprenditori hanno anticipato la loro offerta, o meglio quella del Governo, così che si può leggere: le Parti chiedono al Governo e al Parlamento di rendere stabili e certe le misure previste dalle disposizioni di legge per applicare, sui redditi da lavoro dipendente fino a 40 mila euro lordi annui, la detassazione del salario di produttività attraverso la determinazione di un’ imposta, sostitutiva dell’IRPEF e delle addizionali, al 10%. Le Parti, con riferimento alla decontribuzione del salario di produttività, chiedono che venga data compiuta applicazione ai contenuti della legge numero 247 del 2007 che prevede lo sgravio contributivo per incentivare la contrattazione collettiva di secondo livello fino al limite del 5% della retribuzione contrattuale percepita.





Ci troviamo di fronte, come anche riportato con una puntina di insoddisfazione, non certo a novità, ma ad impegni già presi in passato dai governi che si sono succeduti, addirittura codificati dal Parlamento, dei quali si chiede l’applicazione; per non parlare della tassazione al 10% dei salari di produttività fino a 40 mila euro, norma, quest’ultima, introdotta da Tremonti e ritoccata nel maggio scorso al ribasso dal Governo Monti. Già allora si parlò di agevolazioni fiscali per gli straordinari, ammantandoli di un’aura sacrale: sarebbero serviti a far crescere la produttività. In realtà, di produttività se ne è vista molto poca se oggi se ne riparla ancora, e quel provvedimento è servito solo a far risparmiare un po’ di quattrini alle aziende, con ricadute negative sull’occupazione. Anche allora le prestazioni straordinarie ed i premi riconosciuti come frutto del migliorato andamento aziendale ebbero un trattamento di favore: IRPEF al 10% per redditi che non superavano i 40 mila euro, alla condizione che la parte detassabile non fosse superiore ai 6 mila.
Un privilegio, probabilmente, per Monti, visto che dopo aver riformato, alla sua maniera, le pensioni e ritoccato le accise sui carburanti e anticipato al 2012 in via sperimentale l’IMU, provvide anche a ridurre a 2500 euro il montante del detassabile e a 30 mila euro il reddito complessivo per aver diritto agli sconti fiscali, con effetto retroattivo e calcolato sulla base dei redditi del 2011. In pratica un salasso per buona parte dei lavoratori, che si sono ritrovati, poi, a dover restituire, con rate fino a dicembre 2012, quanto versato in meno rispetto alle aliquote ordinarie. Da considerare è che un salario lordo di poco superiore i 30 mila euro è la normalità per chi ha maturato un discreto livello ed una certa anzianità di servizio.
Che dire poi dello spocchiosissimo ministro Fornero che al meeting di CL del settembre scorso si è lasciata andare ad una beffa solenne? Ha conclamato che le tasse sui redditi da lavoro vanno abbassate. Non è chiaro dove fosse a maggio scorso, quando hanno firmato quel decreto.
Ora, le burle sono il vero pezzo forte del Governo dei Professori, in combutta, questa volta, con associazioni datoriali e sindacati compiacenti. Resuscitare norme già state in vigore in passato, poi cancellate, infine ripristinate di bella posta per ottenere qualcosa in cambio, è uno stratagemma che ricorda quello del prezzo della benzina: è stabile quando scende il petrolio, si impenna quando il petrolio ricomincia a salire per poi stabilizzarsi nuovamente quando le materie prime ridiscendono. Alla fine della fiera il petrolio costa sempre tanto, ma la benzina è alle stelle. Il costo che i lavoratori, e solo la working-class, dovranno pagare per ottenere qualche agevolazione fiscale, è descritto in fondo al documento, al paragrafo 7, con un titolo abbastanza esplicativo “Contrattazione collettiva per la produttività”.
La produttività è il valore di ritorno, per l’azienda, per unità di costo (in questo caso il personale). E’ sempre stata croce e delizia di infinite discussioni tra economisti, sindacalisti e imprenditori. In teoria, un più alto valore di produttività provocherebbe la riduzione dei prezzi, consentendo minori difficoltà di approvigionamento di servizi o prodotti. Sappiamo però che ha senso parlarne quando ci troviamo in una condizione di impiego massimo del lavoratore. Ha meno senso quando è bassa la domanda o quando vengono attivati meccanismi come contratti di solidarietà, o cassa integrazione, che riducono le ore lavorate e non consentono di sfruttare appieno la forza lavoro. E’ per questo che l’accordo sulla produttività, così congegnato, sembra piuttosto un modo per permettere ad aziende e governo di scaricare sui lavoratori parte dei mancati introiti causati dalla crisi economica, ed il concetto di legare buona parte del salario alle fluttuazioni dei ricavi è semplicemente una presa in giro mitigabile solo da forti contrappesi: ad esempio pretendendo dal governo il ripristino del reato di falso in bilancio (onde consentire che commercialisti fantasiosi non erodano gli utili con artifizi contabili) o non accontentandosi semplicemente “di valorizzare, nei diversi livelli contrattuali, i momenti di informazione e consultazione”, specie se si ammette che sulla produttività “incidono, oltre al lavoro, molte altre voci sia materiali (energia, logistica, trasporti) sia immateriali (ad esempio burocrazia, sicurezza, legalità, istruzione)”, così come diviene, “altresì, centrale l’investimento nell’ammodernamento dei macchinari e in ricerca e sviluppo per l’introduzione di innovazioni di prodotto e di processo”.
Sorge spontanea la domanda. Visto che con questo accordo i lavoratori danno tantissimo in termini di diritti acquisiti, quali garanzie ricevono in fatto di investimenti e di buona conduzione aziendale se la partecipazione si limita ad un ruolo subalterno qual è quello della mera informazione e consultazione? Occorrerebbe forse qualcosa di più, magari un consiglio di sorveglianza sul modello della cogestione tedesca, in cui delegati della working class non abbiano solo una funzione di uditori. Sarebbe stato chiedere troppo?
Ma vediamo a cosa, in concreto, sono addivenuti con questo accordo. E’ l’ultimo paragrafo quello più criptico e capzioso.
Intanto si ribadisce un concetto già contestato in passato in occasione di un altro accordo separato, quello che consente alla contrattazione di secondo livello di andare in deroga ai contratti collettivi nazionali, alterando per analogia un principio cardine del diritto, per il quale nessuno si sognerebbe mai di scrivere un regolamento in contraddizione alle leggi, così come una legge non può non essere conforme alla Costituzione.
Questa volta si sono spinti oltre, ritenendo la necessità “che la contrattazione collettiva fra le organizzazioni comparativamente più rappresentative, nei singoli settori, su base nazionale, si eserciti, con piena autonomia, su materie oggi regolate in maniera prevalente o esclusiva dalla legge che, direttamente o indirettamente, incidono sul tema della produttività del lavoro.” E’ chiaro che non occorrono ragionamenti particolarmente articolati per far sì che tutto lo scibile umano si riduca ad un problema di produttività. Inoltre, affidarsi ad organizzazioni sindacali comparativamente più significative evoca un fantasma ricorrente nelle relazioni industriali, quello delle corporazioni, se non di sindacati addirittura padronali.
Rimane il fatto che nonostante non si sia ancora data piena attuazione all’Accordo Interconfederale del 28 giugno 2011 sul tema della rappresentanza sindacale e che il presente accordo lo rimandi ancora, si permette che si possa agire in deroga alle leggi dello Stato su un perimetro piuttosto vasto di questioni.
E quali sarebbero, nel caso, gli oggetti della deroga? Ad esempio le “tematiche relative all’equivalenza delle mansioni“ di modo che il demansionamento di lavoratori appartenenti a categorie, o figure professionali, più ricche non sarebbe più impugnabile davanti ad un giudice del lavoro. Come questo sia conciliabile con l’innovazione tecnologica e con gli investimenti in macchinari o processi più moderni è tutto da spiegare. La modernità e la tecnologia impongono maggiori e più qualificate conoscenze da parte degli operatori, se si pretende che un’azienda sia all’avanguardia. Se fosse realmente questa la preoccupazione della classe datoriale, proprio non si capirebbe come mai il loro cruccio sia quello di non poter utilizzare per mansioni più povere tecnici o operai assunti con una qualifica superiore, visto che non è conveniente fare il contrario.
Ma non solo, nell’accordo si chiede anche “la ridefinizione dei sistemi di orari e della loro distribuzione anche con modelli flessibili, in rapporto agli investimenti, all’innovazione tecnologica e alla fluttuazione dei mercati finalizzati al pieno utilizzo delle strutture produttive idoneo a raggiungere gli obiettivi di produttività convenuti” . Come “l’affidamento alla contrattazione collettiva delle modalità attraverso cui rendere compatibile l’impiego di nuove tecnologie con la tutela dei diritti fondamentali dei lavoratori, per facilitare l’attivazione di strumenti informatici ordinari, indispensabili per lo svolgimento delle attività lavorative” , ovvero flessibilità estrema in fatto di orari, contravvenendo, senza pagare pegno, alle leggi che regolano i turni minimi di riposo e la quantità di ore lavorabili in una settimana. Inoltre vi è un punto piuttosto oscuro in cui l’accordo prevede perfino che un contratto di lavoro, sia pur collettivo e nazionale, possa agire in deroga alle leggi che garantiscono i diritti fondamentali dei lavoratori, se ciò ha una funzione utile per la produzione aiutata dall’impiego di nuove tecnologie.
L’utopia della sinistra è sempre stata la liberazione dal lavoro attraverso l’evoluzione tecnologica. Ora siamo invece all’effetto contrario e perverso della tecnologia nemica che schiavizza l’uomo. In quanto, poi, al fatto che un gruppo di sindacalisti – da un lato – e di esperti di relazioni industriali – dall’altro – debbano decidere su questioni delicatissime come i diritti dei lavoratori (funzione che in uno stato democratico è deputata al Parlamento) lascia interdetti ed appare perfino aberrante.
Quel che in definitiva ci si chiede è: ma in cambio della detassazione di un salario che non sarà nemmeno tutto garantito, val la pena accettare condizioni di lavoro così compromettenti per la dignità stessa del lavoratore? Il ritratto che ne vien fuori non è dei più edificanti. Avremo operai più controllati, possibilmente con uno scibile di mansioni estremamente variabile, soggetti a turni massacranti, e tutto con la collaborazione dello Stato che offre anche sconti fiscali alla riduzione dei diritti.

Sabino Saccinto

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Pubblicato il 10/12/2012 h 07:18:23
Modificato il 15/01/2014 h 13:32:08

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