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Il colonnello Renzy

Da competitor alle Primarie di coalizione del 2012 a vincitore di quelle del PD del 2013, a capo del governo nel 2014. La strepitosa carriera di un giovanotto che nel suo curriculum politico, prima di allora, poteva vantare solo la presidenza della Provincia di Firenze e la sindacatura della medesima città.

Non so se il nuovo segretario del Partito Democratico Matteo Renzi verrà ricordato come il migliore dei segretari che il PD abbia mai avuto o come la più grande delle illusioni. E’ troppo presto per dirlo. Di sicuro, a giudicare dalle prime mosse, lo si può definire come l’uomo dalla battuta che uccide. Malattia contagiosa che sembra aver trasmesso alla governatrice del Friuli Debora Serracchiani, democratica di rito renziano che qualche settimana fa ha attaccato, senza essere letale (almeno per ora) il ministro delle Attività produttive Zanonato, suo vicino di casa (è veneto), ma meno di partito (ha sostenuto Cuperlo alle Primarie). E’ notevole. A poco più di un mese dalla sua elezione, il colonnello Renzy ha già fatto fuori un sottosegretario all’Economia ed il presidente del suo stesso partito, insediato in quel ruolo per volontà del sindaco di Firenze, cioè di lui stesso. Al primo, Fassina, è stata letale una frase (“Fassina chi?”) sparata davanti a un po’ di giornalisti che gli avevano ricordato l’intervista a “La Repubblica” del giorno prima. Il sottosegretario all’Economia aveva osato chiedere che il sindaco di Firenze si impegnasse un po’ di più nel governo Letta, magari indicando persone di sua fiducia in sostituzione della vecchia squadra bersaniana uscita sconfitta al Congresso: ad un cambio così radicale nel partito non poteva non seguire uno altrettanto rapido nel governo (era la tesi del sottosegretario). A pensarla così sono in tanti dalle parti dell’esecutivo, premier pro tempore compreso. La sortita non è piaciuta affatto al segretario PD. Il colonnello Renzy, come si sa, ha orrore dei riti della vecchia politica ed il termine rimpasto basta da solo a dargli l’orticaria.
Il secondo, il presidente del partito Cuperlo, venne fulminato durante la direzione del PD del 20 gennaio, chiamata a ratificare il preliminare di accordo sottoscritto con Berlusconi il sabato prima, il giorno 18. Si era permesso di sollevare qualche obiezione sulla riproposizione, nella nuova legge elettorale, delle liste bloccate. Il segretario lo affossò con un’altra delle sue battute al vetriolo: “Proprio tu, Gianni, mi vieni a parlare di preferenze. Lo avesse fatto Fassina che ha preso 12 mila voti alle primarie l’avrei compreso, ma da te che sei diventato parlamentare grazie al listino di Bersani non l’accetto”. Cuperlo non se lo fece dire due volte, si alzò dal tavolo della presidenza e si sedette tra i delegati, il giorno dopo era già dimesso. Tutti oggi si chiedono chi sarà il prossimo, Dio non voglia che il colonnello Renzy completi l’opera tumulando il governo Letta, magari involontariamente. Ma sono davvero così sensibili questi tipini di sinistra, da rimettere cariche e mandati solo per un’innocente espressione scherzosa del loro capo? Del resto il colonnello Renzy lo aveva già annunciato qualche giorno fa. “Son fatto così – aveva detto – parlo e dico quel che mi pare, non sono e non vorrò mai diventare come quei grigi figuri della prima e della seconda repubblica”. Il clima da caserma forse è lontano, ma al cameratismo ci siamo già.

Questa la parte inedita di un post di circa due mesi fa, quando Renzi era diventato da poco segretario di partito e già iniziava a muoversi con la levità di un elefante all’interno di quello che una volta era stato il “Bottegone rosso” o la “Balena bianca”. Sembrano passati lustri se si pensa a come è cambiata la fisionomia del partito e a quello accaduto dopo, di cui l’evento più traumatico e eclatante è stata la defenestrazione di Enrico Letta dall’incarico da premier per un voto espresso ancora dalla famigerata direzione del PD del 13 febbraio. Oggi Renzi è a capo di un governo che, curiosamente per l’Italia, è ancora privo di una definizione, dopo quello delle larghe intese o di emergenza. Si sa solo – come anticipato da lui - che sarà (almeno lo spera) di legislatura. Una leadership che lascia soddisfatti molti all’interno del PD, ma che preoccupa qualcuno.
Al di là delle battute non affatto innocue, Renzi, dalla primarie in poi, sta imprimendo al Partito Democratico una strana spinta che somiglia tanto ad una mutazione genetica di cui ne sta facendo le spese la componente di sinistra, in minoranza e nemmeno tanto unita all’interno, timorosa di vedersi ridurre ad una sorta di riserva indiana. Fenomeni come il decisionismo, ad esempio, non sono mai stati di casa da queste parti e rimandano ad altre ere e ad altri personaggi. Esempio plastico ne è la legge elettorale. Il colonnello Renzy l’ha concordata punto per punto con gli emissari del Cavaliere, e, a suggello dell’intesa, l’ha invitato nella sede nazionale del PD, creando non pochi malumori tra i militanti più vicini alla tradizione di sinistra, soprattutto tra quelli che hanno sempre nutrito una naturale ripulsione verso il Berlusca e tutto ciò che rappresenta.
Che per la sinistra di spazio ve ne sia decisamente poco, lo si è capito dagli editoriali di giornali solitamente molto critici verso il governo delle larghe intese, ma che si sono distinti e si distinguono tanto per un supposto anti-berlusconismo di facciata, quanto per l’impasse nel decretarne la fine una volta per tutte. “Con chi avrebbe dovuto fare la legge elettorale Renzi? Sarebbe stato brutto se se l’avesse cucinata nel forno ristretto della maggioranza, meglio concordarla con il capo del maggior partito d’opposizione. Sarà pure un pregiudicato, ma rappresenta sempre nove o dieci milioni di italiani”. Così hanno detto un po’ tutti, perfino integerrimi commentatori politici, fieri avversari del berlusconismo in tutte le sue varianti, anche quelle occulte. Che la realpolitik fosse una categoria tollerata nelle relazioni tra Stati esteri, dove spesso accade di avere a che fare con dittatori sanguinari, è un dato risaputo, anche se spesso sottaciuto; ma che forme di pragmatismo spinto ai limiti della spregiudicatezza valessero anche per questioni di ben più misera cucina nazionale, è francamente una novità non so quanto gratificante. La condizione di un pregiudicato che alla sua condanna già definitiva aggiunge una vertiginosa messe di altri procedimenti penali, con conseguente rischio di altri giudizi poco favorevoli, allo stesso tempo in grado di poter sfruttare il vantaggio derivato dalla sua forza economica soprattutto, ed in quanto tale leader politico in grado di influenzare pesantemente la vita di una nazione, rappresenta un vulnus non da poco per uno stato di diritto. Ma a quanto pare, certe elaborazioni devono essere piuttosto profonde per chi crede semplicemente nella logica dei numeri. E il colonnello Renzy ha abdicato a certi principi non solo riconoscendo un ruolo ed una dignità a chi è squalificato per definizione, ma vi ha aggiunto un patto capestro, blindato davanti alla Direzione del suo partito. Oggi, 12 marzo 2014, alla Camera la legge elettorale chiamata pomposamente “Italicum” è stata approvata. Passerà in discussione al Senato e già c’è chi l’ha ribattezzata “Berluschellum”, nel senso che nessun emendamento è stato fatto proprio, lasciando quanto di peggio vi è dentro: dalle liste bloccate alle soglie di sbarramento incredibilmente alte ed uno strano ballottaggio che avverrebbe se nessuna delle coalizioni dovesse raggiungere il 37%. Il misterioso Jobs Act, che secondo il portavoce del PD ha rappresentato uno degli argomenti che hanno consentito a Renzi di vincere la sfida alla Segreteria, è ancora tutto da scoprire e più il tempo passa, meno se ne sa. Per ora Renzi ha deciso di tagliare le tasse per i lavoratori dipendenti nella misura complessiva di 10 miliardi di euro, concentrandoli tra chi ha un reddito complessivo annuo non superiore ai 25 mila euro, ma permangono dubbi, perplessità in merito alle coperture.

Sabino Saccinto

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Pubblicato il 14/03/2014 h 14:52:02
Modificato il 14/03/2014 h 15:22:10

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