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Il ritorno del Caimano

Torna il Caimano impunito con le sue idee strampalate. Ma è a sinistra che la discussione sembra essere più lacerante, tra primarie, regole non ancora definite, coalizioni estremamente mutevoli. Più che una festa decisoria del candidato premier, sembra un congresso mascherato dai risvolti imprevedibili.

Ci mancava e da qualche giorno vi era uno strano stato di preoccupazione tra chi rischiava seriamente di rimanere orfano politico del Caimano. Ma domenica 16 settembre è riapparso, anche se non nel suo antico fulgore. L’abbiamo rivisto scendere le scalette di una nave da crociera come ai vecchi tempi; ma questa volta invecchiato, stanco e con evidenti problemi alle articolazioni. Il Caimano ha riproposto un suo vecchio cliché, convinto come sempre di poter tornare ad infinocchiare una buona messe di italiani, tanti quanto quelli che dovrebbero garantirgli la rielezione.
Questa volta non ha fatto discorsi in totale libertà come gli sarebbe piaciuto, non ha raccontato barzellette di dubbio gusto, non ha indossato il maglione nero e la nave non l’ha pagata lui, ma i partecipanti ad una crociera organizzata di bella posta dal giornale di famiglia. Ad intervistarlo un suo dipendente, Sallusti, che già da qualche settimana si lasciava andare a sperticate critiche sulla sua reiterata assenza.
E Silvio ha recitato la sua parte, nella fiction cucitagli addosso come un Caraceni d’annata: il ritorno; non per sua iniziativa – sia ben chiaro - ma per acclamazione. Non importa che nessuno ne sentisse il bisogno e che di moltitudini plaudenti non se ne scorgessero all’orizzonte, per un effetto mediatico senz’altro meno effervescente che in passato. Dai trionfi annunciati alla quasi veglia funebre, con un codazzo di balie preoccupate ad inseguirlo come si fa con un malato appena uscito dall’ospedale.




Il Caimano ha perso la sua naturale brillantezza, e, soprattutto, non propone più nulla di originale. Ricordate l’ICI, la tassa comunale sugli immobili, pezzo forte di vecchie campagne elettorali? Dimentico che proprio la sua abolizione è stato uno dei motivi del peggioramento dei conti dello Stato, e che la sua succedanea, l’IMU, fu teorizzata da un suo ministro (Tremonti) prima che Monti l’attivasse, Silvio, come lo smemorato di Collegno in preda ad un riflesso condizionato, ha promesso di abolire anche quest’ultima, credendo di far cosa gradita. La casa non si tassa, dice il Caimano, senza precisare se la prima, la seconda o la terza. Ma il festival delle scempiaggini non finisce qui. Sulla sua ricandidatura si mostra oltremodo prudente: dipenderà dalla legge elettorale, e lui, simulando una impossibilità ad agire poco convincente, glissa, dando ad intendere che saranno altri a prendere le decisioni che contano. Di sicuro non è possibile governare con questa Costituzione – sostiene - occorrerebbero maggiori poteri al presidente del consiglio, ad esempio cambiare a piacimento i ministri. E poi giù con la riduzione dei parlamentari. Torna ad insistere sul vecchio leit-motiv della crisi economica che è solo un fatto psicologico; cavalca il suo antico cavallo di battaglia degli italiani benestanti per concludere che no, non è vero che il debito pubblico lasciato in eredità a Monti è del 120% del PIL, quello è il dato ufficiale, ma considerando l’economia sommersa – ragiona – che nel Meridione raggiunge punte dell’ottantacinque percento del PIL, il debito è intorno al 90%. Peccato che il sommerso sia strutturalmente non tassabile. Immancabili le critiche al governo che lo ha succeduto, sostenuto anche dal suo partito: troppe tasse deprimono la crescita ed il calo dello spread non è merito di Monti, ma del governatore della BCE Draghi, uomo voluto in quel posto proprio da lui, Silvio.
Tra tutte le panzane, quella dell’IMU è di sicura presa presso l’elettorato cognitivamente più debole; quella sullo spread, invece, è più pericolosa e pervasiva, attecchisce tra le file di chi è poco propenso a lunghi ragionamenti, ma più informato sulle cose del mondo. Sarebbe opportuno approfondire.
Il provvedimento con il quale la BCE si impegna con fondi illimitati a sostenere i titoli di Stato dei paesi sotto attacco degli speculatori, è stato votato a maggioranza con il solo voto contrario del governatore della Banca Centrale tedesca, isolato dopo che Draghi aveva convinto i rappresentanti di paesi come Olanda e Finlandia, che in fatto di ortodossia monetarista e di rigore dei conti non sono meno tetragoni dei tedeschi.
Questo miracolo si è reso possibile per un contrappeso, in gergo tecnico una “condizionalità”, che i mitteleuropei hanno preteso e ottenuto: gli aiuti possono essere concessi dalla BCE solo in presenza di un nuovo memorandum concordato tra il capo di governo del paese richiedente e la troika BCE, Commissione Europea e Fondo Monetario Internazionale. Dopo l’esperienza greca e portoghese capiamo benissimo di cosa si sta parlando.
Ad una definizione di questo tipo si è giunti dopo mesi e mesi di lavoro non semplice da parte delle Cancellerie europee dei paesi più ragionevoli; dopo che i conti di paesi come l’Italia sono stati risanati con sacrifici che conosciamo benissimo e dopo che c’è stata, anche da parte del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, la presa di coscienza che spread nell’ordine dei 400 punti base tra Bund decennali tedeschi e omologhi italiani non rispecchia una condizione economica di fatto, ma un sistema drogato che permette agli speculatori di realizzare guadagni altrimenti impossibili con altre forme di investimento e a fronte di un rischio minimo.
Vien da sé che se Berlusconi fosse rimasto capo del governo in questi ultimi otto mesi e fossimo riusciti nel frattempo ad evitare la catastrofe, con tutta probabilità mai e poi mai Draghi avrebbe potuto proporre un meccanismo anti-spread di quella fatta. Quindi non è assolutamente vero, come invece lui sostiene, che tra Monti e il Caimano non cambia nulla, o che lui sia il miglior politico in circolazione. Se veramente lo era, perché ha passato la mano?

Il caso Renzi

Depurate le sue parole da tutta la merce avariata che propone, il colpo veramente da maestro lo ha scoccato all’indirizzo di Matteo Renzi. Secondo lui, il sindaco di Firenze è l’unico che potrebbe traghettare il PD verso un approdo socialdemocratico, ripulendolo delle cariatidi comuniste sopravvissute alla caduta del Muro di Berlino. La cosa non è passata inosservata nel Partito Democratico e, soprattutto, ha destato una reazione piuttosto sdegnata di Renzi che per bocca del suo staff ha denunciato l’intrusione berlusconiana negli affari del suo partito, come un tentativo interessato di delegittimazione, un modo per farlo apparire intelligente con il nemico, se non quinta colonna o addirittura traditore. Tesi tutta da dimostrare come quella secondo la quale Berlusconi avrebbe attaccato Renzi perché ritenuto più pericoloso dei suoi concorrenti di coalizione, il sindaco di Firenze cita Vendola, ma il riferimento a Bersani è chiaro. A questa strana tesi, nel PD ha creduto solo Veltroni, dagli altri è giunto un eloquente silenzio.
Io personalmente sono disposto a pensare che per quanto bugiardo e doppio, il Caimano questa volta sia stato sincero. Che tra i due ci sia un antico e particolare rapporto è notorio, anche se Renzi tende a minimizzarlo. I fatti parlano da soli e quel viaggio del primo cittadino fiorentino in quel di Arcore a perorare la causa della sua città, non ha mai convinto nessuno del tutto. Renzi lo rifarebbe e dice di non aver sbagliato, ma il personaggio è piuttosto cocciuto e raramente ammette i suoi errori. Il problema è che solitamente i sindaci tengono rapporti con presidenti di province o di regione. Quando si rivolgono al governo centrale lo fanno seguendo la prassi che prevede il passaggio per il ministro competente, e se proprio si rendesse necessario rivolgersi direttamente al principale lo si fa nelle sedi opportune, non in una residenza privata, per motivi e cause che non possono essere misteriose o vaghe, ma note e precise. Di ciò che si son detti Renzi e Berlusconi, il cittadino comune non ricorda nulla se non l’episodio in sé. Quale fosse l’urgentissimo motivo che riguardava la città di Firenze, tale da portarlo dritto e spedito ad Arcore non vi è menzione. Ma le affinità elettive non finiscono qui. Che Renzi sia più antropologicamente vicino ad un dirigente PDL che a uno di sinistra, è fin troppo evidente, ed alcune posizioni prese contro la CGIL, i pronunciamenti e le lodi tessute a Marchionne sono indicative del personaggio. A ciò si aggiunge parte del suo programma politico tendente a rottamare non solo i vecchi dirigenti del Partito Democratico, ma anche le tradizionali alleanze e forse il partito stesso. Nato nella Margherita, è naturalmente portato verso quel luogo politico chiamato Centro, ma l’OPA sugli elettori delusi del PDL stanati da Renzi non alle primarie, ma solo alle politiche, è un indice molto preciso di quale sia la sua collocazione vera, oggettiva. Per chi dovrebbero votare degli ex-pidiellini? Non di sicuro per chi guarda a sinistra.
La sua idea di rottamazione è solo un involucro accattivante per cercare di pescare tra i delusi, categoria numericamente molto forte, ma dentro non vi è nulla di rivoluzionario e il suo, più che un programma politico per governare una nazione, sembra il prospetto lavori di un amministratore di condominio.
Berlusconi avrà mille difetti, ma il suo istinto di vecchio marpione difficilmente lo tradisce, un suo simile sa riconoscerlo, e sa anche come corteggiarlo. Il fatto che l’oggetto dei suoi desideri sia anche il candidato alle primarie del Centrosinistra, e che all’interno di quelle potrebbe avere un ruolo non marginale, rappresenta un problema in sé.

Le primarie

Probabilmente uno dei più grossi errori che Bersani sta commettendo, è quello di non aver fatto riscorso a quella norma dello statuto PD che prevede, in caso di primarie di coalizione, la naturale e unica candidatura del segretario. E’ perfino previsto che in questi giorni quella norma subirà una modifica ad personam proprio per consentire la candidatura del sindaco di Firenze. Contestualmente dovranno anche essere definite le regole della partecipazione, e tra queste la più attesa: se consentire a tutti liberamente di votare o se farlo previa iscrizione in un albo degli elettori del Centrosinistra. La questione non è di lana caprina, da una parte c’è Renzi ed il suo entourage che vorrebbero primarie libere, dall’altra Bersani che teme l’adulterazione del risultato per effetto della presenza ai gazebo di elettori estranei al Centro-Sinistra.
E’ chiaro che se le paure di Bersani e di buona parte del Partito Democratico sono queste, non c’è da stare allegri, ci troviamo di fronte al leader di un partito che non solo teme un suo sottoposto – situazione già abbastanza singolare in sé - ma che pensa che quest’ultimo voglia addirittura fargli le scarpe ricorrendo ad un manipolo di figuri della sponda avversa. Ce ne sarebbe abbastanza per una spy-story se il risvolto politico non fosse ancora più inquietante. Quanto vi è in comune tra Bersani e Renzi? O meglio, quanto sono distanti le loro posizioni, considerato che entrambi sono esponenti dello stesso partito? C’è un limite destro o sinistro atto a contenere i confini ideologici del Partito Democratico o ci troviamo davanti ad un’ameba che cambia continuamente forma, o ad un partito che ha deciso di abdicare ideologicamente?
Quando naturalmente ci si arriva a porre quesiti di questo tipo, si è alla fase in cui la scissione o l’eutanasia può essere più conveniente del trascinarsi nelle proprie contraddizioni. Tra i due non vi è quasi nulla che li accomuni, a partire dal problema dirimente delle alleanze, che non può essere il prodotto di una riffa, ma di una discussione seria, sincera e approfondita, più adatto, come tema, ad un congresso che ad una semplice espressione numerica che si teme inquinata. La breve storia del Partito Democratico è più ricca di primarie finite male che bene. A Napoli furono addirittura annullate e si disse che a votare c’erano andati perfino i cinesi. A Palermo accadde l’incredibile: un partito della coalizione non fu soddisfatto del risultato e decise di presentarsi da solo alle elezioni riuscendo perfino a vincerle. In ogni caso è uno strumento da maneggiare con estrema cura, e non è detto che alimenti un circolo necessariamente virtuoso. Lo è quando hanno l’unica funzione di determinare il candidato, a fronte di un programma e di una trama di alleanze già definita e concordata; ma quanto si profila dalle parti del PD non ha nulla di tutto ciò, ad iniziare proprio dalle alleanze. Bersani è fermo sull’asse PD, SEL e socialisti di Nencini. Renzi ritiene che la foto di Vasto sia da stracciare. Lui guarda al centro senza disdegnare una strizzatina d’occhio all’elettorato di destra. Anche il giudizio sul governo Monti divide i due. Bersani pensa che quel ciclo sia definitivamente tramontato e apostrofa come palude una eventuale situazione di stallo post elettorale che potrebbe indurre nuovamente in un governo tecnico. Renzi sul punto è piuttosto ambiguo. E’ un sostenitore delle politiche montiane - contrariamente a Bersani che le apprezza per certi versi ma non per altri – ma ritiene che l’aver ricorso al governo tecnico sia stato una dimostrazione di debolezza del Centrosinistra, non pronto ad elezioni anticipate.
Ma evidentemente Monti deve essere servito anche a Renzi, se uno dei punti oggetto delle primarie è proprio l’agenda Monti, e un suo uomo, Pietro Ichino, in una intervista a “L’Unità” del 29 settembre ha detto: le primarie “servono a far maturare nel centrosinistra una scelta convinta a sostegno della scommessa europea dell’Italia. E per costruire una maggioranza politica forte e coesa a sostegno dell’agenda Monti. A quel punto il ruolo di Monti può essere quello di presidente della Repubblica, o del Consiglio dei ministri, o dell’Ue, ma l’Italia si sarà comunque data una rotta precisa e affidabile”. Per continuare: “Guardi, “Monti-bis” può voler dire due cose: un governo Monti a cui arriviamo di nuovo per l’incapacità della politica di far fronte decentemente all’emergenza e ai nostri impegni internazionali, cioè ancora il fallimento della politica, oppure un governo che – con Monti premier o no – è capace di proseguire con decisione nella strategia ideata da lui per salvare l’Italia costruendo l’Europa. A me sembra che la bozza di programma che Renzi ha presentato a Verona il 13 settembre sia molto coerente con questa strategia. Vorremmo vedere altrettanta coerenza nel programma che presenterà Bersani”.
Ichino non è il portavoce di Renzi ma la pensa allo stesso modo. L’idea dell’incarico a Monti rappresenta per Renzi e i renziani non il fallimento della parte politica che in quel momento governava, ma di tutta la politica, compreso il PD di Bersani che era all’opposizione. E il fatto è abbastanza singolare se si considera che è farina del sacco di due esponenti democratici non di secondo piano. L’idea di un salvacondotto salvifico costituito da un’agenda attribuita a Monti, ma che in realtà è quanto Monti ha ereditato da Berlusconi dopo la famosa quanto umiliante lettera della BCE firmata da Draghi e Trichet e condivisa dall’UE, è il vero discrimine tra chi nel PD è convinto che il nuovo premier dovrà essere ancora Monti e chi invece considera esaurita l’esperienza del governo tecnico.
Come si vede, fra i due ci sono differenze piuttosto profonde che non si fermano solo ai due leader, ma segnano e caratterizzano il partito, perché se è vero che esistono Bersani e Renzi, è anche vero che una parte del PD è bersaniana ed un’altra renziana. Fosse solo una questione di correnti ci preoccuperemmo poco, il guaio è che il PD in questi anni non ha messo a punto metodi che garantissero la convivenza e l’unità. Le teorie di Ceccanti sugli elettori indipendenti, ammannite intorno ad una discussione sulla partecipazione alle primarie di uomini e donne intimamente di destra, sono errate in nuce. L’esistenza di un elettore indipendente contempla il suo contrario: il dipendente. Ceccanti si limita ai formalismi. Per lui dipendenti sono gli iscritti ai partiti o quelli che ricoprono cariche pubbliche. Una platea piuttosto ridotta, se vogliamo, che, secondo Ceccanti, non riserverebbe sorprese. Ma siamo proprio sicuri che democratici intimamente bersaniani sarebbero disposti a votare per Renzi premier qualora vincesse le primarie? Io non ci metterei la mano sul fuoco, così come è altamente improbabile che un elettore di destra voti per Bersani. La contraddizione insanabile in cui è caduta una parte del PD è proprio questa. Gli spin doctor di Renzi, mi riferisco oltre che a Ceccanti anche al prof. Ichino, ritengono che la questione dei delusi del Centro-Destra sia risolvibile facendogli firmare una dichiarazione con la quale si impegnano a sostenere dopo il Centro-Sinistra. Soluzione ingenua o infida, il voto è segreto e non esiste alcun metodo di verifica che ciò possa accadere realmente, mentre è sicuro che alle primarie hanno votato per Renzi. E poi, se un partito di centro-sinistra si apre ai delusi di Berlusconi, che sempre di destra sono, fino a che punto potrà dire di aver conservato la sua natura?

Sabino Saccinto

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Pubblicato il 03/10/2012 h 12:54:04
Modificato il 15/01/2014 h 13:31:09

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